Tra terra e cielo
Studio Tommaseo, Trieste, 1991

Dopo aver esordito con giovanile e vitalistica, ancorché sapiente foga nell’ambito di una espressività nomadicamente esplosiva e sfuggente, Perrini ha saputo progressivamente sfrondare la propria ricerca da ogni esteriore reminiscenza, come da ogni esplicito, orgoglioso e «profetico» volontarismo, per concentrarsi con sempre maggiore coerenza sulla immanente astanza della pittura le cui componenti appaiono intensamente coinvolte in un sempre più energico e riflessivo, anche se libero, «controllo». L’iniziale propensione monocromatica per lo più affiorante nella «spirituale» successione dei blu viene così accentuandosi contro ogni ipotizzabile superficialità e «frivolezza» del colore che non si riduce mai a mera pellicola coprente, ma si sedimenta conoscitivamente evidenziando la propria densità e consistenza e la propria segreta energia, senza per questo decadere mai a mera materialità. Si può anzi rilevare come, specie nelle opere più recenti e compiute, Perrini venga fondando la propria pittura proprio sulla incontenibile, interiore potenza sprigionantesi nell’attimo infinito dell’eclatante, misterioso passaggio dal colorico al colore.
È allora in relazione a tale intimo dinamismo che la superficie pittorica viene reagendo: piegandosi, inarcandosi, flettendosi per trasformarsi in uno spazio profondo, complesso e pluridimensionale, capace di assumere una tangibile e plastica consistenza oggettuale volta ad instaurare un nuovo ed inedito rapporto con il fruitore. Non si tratta però, nel caso di Perrini, di uno dei tanti, più o meno riusciti tentativi di «uscire» dal quadro per conferire all’opera una dislocazione «ambientale», quanto piuttosto di «consolidare» la pittura, ribadendone, con ogni possibile forza, le possibilità di «resistenza» nei confronti sia del marasma, sempre aperto ad ogni manipolazione, dell’informazione indifferenziata, del dilagare dell’insignificanza prodotta dall’illimitata moltiplicazione degli stimoli visivi e dall’invadenza di un sempre più soffocante, futile ed effimero estetismo diffuso.
Lungi dal ridursi ad una indagine puramente formalistica di ascendenza esclusivamente astrattocostruttivista, la creatività di Perrini pare così sostanziarsi di un profondo contenuto etico indirizzato a ricercare una universale comprensibilità ed una durevole persistenza. D’altronde che Perrini non voglia in alcun modo uscire dall’orizzonte della pittura appare altresì dimostrato dal fatto che nonostante la sua solida e tenace «gravità», la materia cromatica si rende significativamente «penetrabile allo sguardo».
Le articolate superfici che avvolgono e delimitano l’effettiva, empirica tridimensionalità dell’opera, sembrano infatti ulteriormente «rilanciare» le tangibili conformazioni delle severe masse plastiche, arricchendole di sapienti virtualità, di raffinate «aperture» eidetiche e immaginative, di intrinseche, profonde spazialità. Nonostante la sobrietà e castigatezza delle componenti pittoriche messe in gioco nulla è comunque più distante dei dipinti di Perrini da ogni ipotesi brutalmente minimalistica o puramente analitica: sempre nuovi e molteplici appaiono infatti i nessi, le relazioni, i magnetismi che dialetticamente si instaurano fra i diversi elementi all’interno dell’opera.
Le impercettibili modificazioni del ductus o le più marcate, geometriche aggregazioni che spesso sembrano comporsi in «armoniche» dissimetrie ai limiti del dipinto, non si limitano allora a sottolineare o a contrappuntare le dolci, ma consistenti concavità o convessità del supporto, ma esprimono esse stesse significative valenze sottilmente allusive ed umanamente costruttive, accentuando per contrasto l’illimite, graduale sequenza luminosa del colore. Senza ricorrere ad esteriori referenzialità, lo spettatore-interprete appare quindi coinvolto nel concrescere di molteplici universi di significato.
Così talora la limpida e pervasiva oscurità di alcuni «notturni» sembra richiamare alla mente talune disincantate meditazioni leopardiane sull’«... infinita vanità del tutto», o viceversa, il dilatarsi ed espandersi luminoso delle stesure cromatiche pare alludere, in diverse opere, all’auroralità dei momenti iniziali e fondativi in cui dall’indistinzione originaria ogni cosa può sorgere e venire alla luce, o, ancora, l’oltrepassamento, nella infinita distensione tonale degli sconfinati campi cromatici, di ogni geometrica delimitazione, pare dischiudere, senza ermetismi o esoterismi, oltre gli strepiti e i fragori, le ansie e i tormentı della quotıdıanıtà, la possibilità di una più ampia, silenziosa e pacificante contemplazione. Ma ciò che più conta, nel considerare i dipinti di Perrini, è che tali significative estensioni non si generano tramite divaganti fabulazioni o eterogenei apporti narrativi, bensì per una interiore «crescita» della pittura in una costante «regolativa» tensione alla pienezza illimite delle infinite virtualità del colore.
D’altronde la forza di una tale «costituzione d’oggetto» sembra aver avuto una ulteriore significativa riprova nell’ancor breve ciclo delle ultimissime opere nelle quali, abbandonato l’uso aspro e austeramente stratificante della spatola per affidare alla più morbida e fluida mediazione del pennello la formulazione delle proprie germinali immagini, l’artista, sensibile ora anche a ulteriori tonalità cromatiche, pare aver mantenuto intatte le proprie capacità di «trasmutare in forma» l’estrema coscienza del vivere: tra terra e cielo.

Dino Marangon, 1991