Orto e porto

L’arte di Agostino Perrini è in gran parte ascetica, meditativa, quasi reticente, di affinamento estremo del processo di conoscenza e sensibilità estetica, ma è mossa da forte necessità etica nell’inseguire - quasi nell’accudire - con estrema delicatezza - un ritmo emotivo e spirituale della trasformazione della materia in luce, e del segno in flusso di scrittura, per approssimarsi all’estrema verità dell’io e del rapporto di questi con l’altro da sé. Una ricerca di verità assoluta, ma assumendo l’estrema relatività di tutto. L’arte di Perrini è come se tentasse le parole magiche di una poesia presaga, che esplora gli stati vaghi e disordinati dello spirito e dell’anima, per carpirne anche solo una traccia, un bagliore, una contrazione. Il tentativo è quello di fare del proprio lavoro, anche su carte precarie, un atto vitale.
Il segno (insieme definitorio e rabdomantico, esatto e spezzato) e la bava o macchia di colore sono dunque anch’essi uno spessore, una lievitazione d’una verità umana, come un alito lieve, ansimante, talora un respiro che si gonfia e sale verso l’alto. Disegno e pittura sono sondaggi a captare il movimento con cui la materia si coagula e si sfalda nello spazio, in analogia con la trama dell’esistenza.
Quello di Perrini è un indagare, catalogare, raccogliere in un orto o un recinto della pittura frammenti (fiati di vento, stendardi di malinconia, elementi di mura, di confini di città, di tombe di piazze e d’isole, d’ombre, di riflessi, di scritture...), sondano una sorta di struttura geometricamente arbitraria di definizioni esatte, intrecciata a un esercizio di memoria che non può che svolgersi all’opposto dell’esattezza, in una griglia o porto dove si ricoverano i ricordi - le tracce minime, quasi insignificanti, le luminescenze, le ombreggiature - pieni di buchi e smagliature. Riduce le forme a sagome sottili e affida bilici precari a segni vibratili e a spinte dinamiche.
Per Agostino Perrini il mondo è salvato dalle ombre, noi vediamo la vita solo da riflessi: in tal modo ritrova anche la lezione paterna, nel dare un contorno alle cose ed agli affetti, nel coltivarli in un orto (ecco in mostra l’idea del sacello-casa, con l’olio che si lascia andare a nutrire l’humus di un giardino sotterraneo), e insieme nel misurarli sulla lontananza, nelle ferite, bruciature e slabbrature.
Tra i luoghi del silenzio, vuoti di confine, nuclei di terra, rametti, spini, foglie usa il procedimento del varco alla conoscenza, della pittura come formazione fetale, del segno come energia positiva di esistere, di dare un senso, anche quando si contrae, si affanna e sembra sfilacciarsi nella fatica di vivere.

Fausto Lorenzi, febbraio 2008