Il mondo salvato dalle ombre

L’arte non è un calco: la tela, la carta sono luoghi di resistenza, che cercano di trattenere intatta, come un’ombra tiepida, una sensazione assoluta, un umore di luce tra corpo e assenza.
Quello di Perrini è un indagare, catalogare, raccogliere in una sorta di recinto della pittura frammenti (fiati di vento, elementi di architettura longobarda...), sondando una sorta di enigmistica (di metafisica se preferite), intrecciata ad un esercizio di memoria, di autobiografia personale e collettiva che non può che svolgersi all’opposto dell’esattezza, in una griglia di ricordi – le tracce minime, quasi insignificanti, le luminescenze, le ombreggiature – pieni di buchi e smagliature.
Rovescia le certezze fondate su equilibrio staticità e pienezza di volumi riducendo le forme a sagome sottili e affidando bilici instabili e precari a segni vibratili e a campi di forza e spinte dinamiche.
Perrini si muove su un filone dell’arte che ha messo in crisi l’idea della scultura come volume e peso e l’dea della pittura come superficie. Il disegno o la pittura è come un sondaggio a captare l’eco del "ritmo" con cui la materia si coagula nello spazio e si sfalda nel tempo, tessendo la trama dell’esistenza.
Per Perrini il mondo è salvato dalle ombre, noi vediamo la vita solo da riflessi ("fissando ciò che non si può vedere").
Bagliori luminescenti possono raccontare per metafora pulsioni del corpo, intermittenze del cuore, striature dell’anima, come d’una luce che in parte s’è persa, ma non dimenticata. Così Perrini, in un gioco di opposizione supporto / superficie e chiaro / scuro esplora territori di archetipi, al limite dell’inafferrabilità: percorre la superficie per restituire al segno, al colore, alla scrittura di ombra e luce, una capacità generante. La chiusura della forma perciò non è mai del tutto compiuta: c’è sempre un accenno di non finito, un sentimento trepido, insieme limpido e oscuro, della vita.
Una ricerca inquieta, acuta, quasi da veggente, affidata a cifre alchemiche e "impure" generatrici dell’universo che cerca in un ritmo "liquido", inafferrabile, di concentrazione dell’energia nei punti salienti. Le immagini valgono per il segmento stesso di vita ed energia emotiva e flusso intellettuale che genera il farsi dell’opera, come su un brogliaccio di varianti d’un poeta. Il catalogo di frammenti affiora nell’ombra, che è velo e schermo, e costringe a una lettura in profondità, a far emergere forme larvali e colature come improvvise luminescenze e incerti bagliori.
La gestualità si affatica nello spessore della materia a inchiodare brandelli d’anima, con gli interrogativi ultimi dell’esistenza: il mistero, l’ignoto, il nuovo, le parole magiche di una poesia presaga, più che cosciente, che esplora gli stati disordinati dello spirito e dell’anima, cerca l’immedesimazione con l’inconoscibile per carpirne anche solo una traccia, un bagliore. Il tentativo è quello di fare un atto vitale.

Fausto Lorenzi, dicembre 2006