Agostino Perrini. La mobile quotidianità dell’assoluto
Galleria Civica di Arte Contemporanea Ai Molini, Portogruaro, Maggio 2005

Formatosi all’Accademia di Belle Arti di Venezia con Edmondo Bacci – uno dei maggiori esponenti dello Spazialismo – Agostino Perrini, dopo alcuni giovanili approcci concettuali, è venuto ben presto concentrando le proprie istanze creative nell’ambito del sempre rinnovato universo del dipingere, dei suoi mezzi. dei suoi significati, esplorando le molteplici metamorfosi e virtualità di una raffinata ed espressiva materia pittorica, ricca di interiori dinamismi e aperta alle più diverse e libere relazioni con le immagini e l’ambiente.
Opponendosi per molti versi all’assillante bombardamento del mondo informazionale e dei mass media immortalato e magnificato dall’allora dilagante vulgata Pop, Perrini ha saputo, fin dagli esordi, esplorare aspetti meno stereotipati, chiassosi ed esteriori del reale, avvalendosi di qualità immaginative e trasfigurative della pittura quali il segno, la superficie, il ductus, i supporti, i materiali, i possibili, differenti attributi delle immagini.
In tale contesto, Perrini non solo verrà significativamente operando una meditativa riduzione coloristica, avvicinandosi al monocromo, nella seppur estesa e variata gamma dei blu: dal turchese al cobalto, all’indaco, all’oltremare, alle sobrie, ma risonanti profondità del blu di Prussia, ma contrariamente alla mitizzazione degli oggetti e delle immagini di grande consumo nella moderna società industriale di massa, verrà proponendo una oggettualità più originaria, nonché più meteorica e sfuggente: una presenza acutamente problematica in grado di suscitare multiformi dinamismi, veicolo e tramite, nella fusione di icona, segno e gesto lirico-drammatico, di articolati percorsi critico-immaginativi.
Perrini è così venuto maturando una sempre più profonda e consapevole intenzionalità oppositiva nei confronti del depauperamento e dello spreco delle cospicue qualità eidetiche e comunicative della pittura, esplorata in una sempre più coinvolgente e pervasiva messa a tema della densità, della consistenza, della segreta, ma non impenetrabile profondità del colore che, senza mai decadere a mera materialità, è venuto caricandosi di inusitati magnetismi, di raccolte, ma efficienti energie.
È in relazione a tali interiori dinamismi che, ad un certo punto, la superficie pittorica è venuta reagendo, piegandosi, inarcandosi, flettendosi per trasformarsi in uno spazio intenso, profondo, complesso, capace di instaurare inedite relazioni con l’esterno.
Nonostante l’accentuata consistenza dei supporti e la loro evidente, tangibile tridimensionalità, tali opere non intendono tuttavia, in alcun modo collocarsi al di fuori dell’orizzonte della pittura, come appare provato dall’insorgere, al loro interno, di una persistente dialettica tra l’immediata presenza delle loro componenti materiali e la non meno fondamentale, e inarrestabile espansione di molteplici virtualità visive ed ideali che, nella continua crescita di nessi e relazioni sembrano alludere a sempre nuovi celesti e fatali itinerari poetici.
Ben lontani da qualsiasi riduzione minimalista, come pure da ogni isolamento in un mero gioco formalistico, i dipinti di Perrini intendono positivamente porsi come eventi in grado di intersecarsi in maniera decisiva con le multiformi vicende del reale, anche se la loro possibile transitività non va comunque considerata un dato, bensì come un’eventuale, agognatissima meta da perseguire e da raggiungere.
L’attenzione del pittore verrà così indirizzandosi soprattutto al rapporto che intercorre tra l’opera e l’ambiente nel quale verrà collocandosi, con una particolare attenzione alle problematiche dell’ombra, sia nella sua definizione empirica di diminuzione e privazione di luce dovuta all’interposizione di un corpo opaco, che nelle sue infinite valenze espressive e metaforiche.
A questo proposito, particolarmente significative appaiono le riflessioni di Arturo Martini, uno tra i maggiori artisti del secolo appena trascorso e grandissimo scultore, il quale, nel tentativo di mettere a tema la differenza tra pittura e scultura, per quanto riguarda la possibilità di queste due discipline di pervenire alla creazione di opere veramente autonome e assolute, nel suo tormentato libro La scultura lingua morta, ha tra l’altro osservato: "... un pomo modellato da Fidia resta un oggetto, mentre un pomo dipinto, anche se dipinto male, rientra nel fenomeno dell’arte", spiegando altresì: "Il pomo modellato è al di fuori dell’arte perché è un fatto iconografico isolato nello spazio, il pomo dipinto è un fatto d’arte ... perché sono costituiti anche anche lo spazio e l’ombra che lo circondano", "Invece", preciserà poco dopo, "per la scultura l’ombra resta un caso, come l’eco per un suono."
A tali tematiche è venuto creativamente richiamandosi anche Lucio Fontana il quale, non solo rifacendosi alle istanze boccioniane di realizzare nella continuità spiralica delle linee-forza la forma con le sue immediate circostanze spaziali, ma agendo strumentalmente da scultore sulla ideale e convenzionale virtualità della tela tesa della pittura, ha superato e reso infatti nei suoi buchi e nei suoi tagli, interna all’opera proprio quell’accidentalità delle ombre e delle fonti luminose che, trascesa nella pittura, impediva invece, come aveva sostenuto Martini, alla scultura di poter raggiungere l’Assoluto artistico.
Concettualizzando da un lato la raggiunta libertà e disponibilità dello spazio e facendo in modo che i propri dipinti non rimanessero chiusi nei limiti della pura e semplice oggettualità, e dall’altro non trascendendo in una astratta ipostatizzazione ogni contingenza fenomenica, Fontana giungeva infatti a sintetizzare nell’opera una infinita gamma di passaggi che, dalla più immediata contigenza conduce fino alla assolutezza ideale dell’arte, immergendo così il fruitore in una inedita situazione psicofisica.
Nella loro eccezionale intensificazione della realtà da tutti partecipata, i Concetti spaziali vengono infatti continuamente esercitando il loro richiamo divenendo campo e stimolo di sempre rinnovati allargamenti immaginativi.
Analogamente, anche sulla scorta di tali eccezionali precedenti, Perrini pare altresì interessato a rendere mobile, sensibile, relativa, l’immagine pittorica, non ricorrendo all’applicazione delle perturbazioni ottiche o ai movimenti virtuali o meccanici come nelle correnti ottico-cinetiche, bensì, nel solco della tradizione suaccennata, analizzando e approfondendo i termini lirico-poetici del dipingere.
In particolare nuove soluzioni gli verranno offerte dall’uso della trasparenza del supporto.
Egli verrà così producendo un vasto ciclo di purissime incisioni su limpide lastre di vetro, dove emergerà una sottile, ma decisiva contrapposizione tra la fissità del disegno e la mobilità dell’ombra che questo va proiettando sulla parete di fondo.
Tuttavia Perrini non intende rinunciare ai mezzi più usuali del dipingere e, in particolare, al colore, seppur, come si è visto, volontariamente limitato alle sobrie modulazioni dei blu e, in seguito, soprattutto dei bianchi e dei neri, via via dominanti e pervasivi e solo in rarissimi casi popolati qua e là da inattesi accenti e viraggi nelle solari accensioni dell’arancio, a evidenziare particolari incandescenze formali ed emotive.
Si tratta comunque solo apparentemente di una semplificazione, Perrini, specie nelle sue opere degli ultimi lustri, verrà anzi mescolando all’olio sgrassato grafite e polvere di carbone ottenendo così una materia scabra, rigorosa, austera, eppure preziosa per quanto riguarda la grana e gli interni ritmi del pigmento colorico.
Gli andamenti pittorici vanno così acquistando particolari sensibilità, mostrandosi apertissimi ad accogliere le più lievi modulazioni, le più impercettibili emergenze segniche, i graffiti più sottili, sempre però ricondotti, come sull’onda di segreti, invisibili, ma efficienti magnetismi, nell’ambito di un talora enigmatico, ma attivo orizzonte immaginativo.
Nascono così dipinti come Tempo sospeso, dove nell’albicante ispessirsi dei pigmenti viene incisivamente delineandosi un segno aereo e danzante, o più secco e pungente, volto, quasi licinianamente, a far emergere sottili equilibri e instabili tensioni.
Ma forse le opere più significative risultano dalla sovrapposizione di una lastra di vetro incisa alla superficie del dipinto: così l’immagine viene infatti arricchendosi di molteplici interni dinamismi prodotti dai continuamente insorgenti nessi tra la fissità delle tracce e delle stesure e il loro incessante evolvere in relazione al mutare delle condizioni ambientali, riportando per certi aspetti l’opera ad una seppur imponderabile oggettualità, pur salvaguardando altresì la realtà dell’arte come progetto, come sintesi lirico-espressiva, come coagulo di significati e di irrinunciabili istanze inventive.
Le barriere che dividono l’opera dal reale si fanno allora più labili e incerte, mettendo in questione consuetudini e aspettative e invitando a rinnovate riflessioni.
Talora la consistenza stessa degli enti sembra come vacillare, ogni cosa pare rimandare ad altro: Eco di un’eco; oppure lacerti di colore sembrano come emergere e sovrapporsi allo sgranarsi pulviscolare del nero più profondo sul quale vanno accendendosi come dei nuclei lucenti, mentre un improvviso, vasto varco luminoso appare popolato in negativo dall’aleggiare di analoghi oscuri percorsi segnici: Alle soglie dell’ombra.
In altri casi l’opera pare acquistare in sé misteriose distanze, divenire essa stessa Contenitore d’ombra, o ancora i morbidi piani, le stesure del colore si trasformano in un fluido Velario, forse a nascondere, occultare, celare incomunicabili segreti, o, viceversa, a indicare il passaggio a inattese rivelazioni, a preannunciare oltre la cortina dell’ignoranza, della retorica, della durezza del cuore, la scoperta del sé, della verità, oltre la stessa rappresentazione.
Nelle opere più recenti, a prevalere sembra comunque essere una insistente volontà di approfondire i sensi e i significati del proprio esserci, del proprio situarsi sulla terra e nel fluire del tempo.
Talvolta i contorni del dipinto appaiono articolati lungo linee spezzate, come a declinare l’astrattezza dello spazio galileanamente inteso, nella concreta effettualità di un Luogo nel quale l’uomo, con la sua laboriosa presenza possa attuare le opportune, desiderate trasformazioni: un’immagine analogamente contornata all’interno della superficie pittorica verrà così assumendo l’aspetto di un Hortus conclusus, mentre più complesse e articolate delimitazioni appariranno, quindi, quali Città ideali.
D’altronde l’empirica bidimensionalità della pittura bene si adatta alla rappresentazione in pianta, la quale, pur completamente al di fuori di ogni concreta esperienza visuale di una costruzione o di un edificio, appare ancora il miglior mezzo con cui si può giudicare e sintetizzare l’intero organismo di un’opera urbanistica o architettonica nel suo imprescindibile legame alla terra, dalla quale l’uomo progetta di elevare i meravigliosi, incredibili equilibri di sempre nuove Architetture.
"Regno dell’ombra" – ha scritto ancora Arturo Martini – "è l’architettura: il vero architetto è il poeta del vuoto (ombra) che il pieno (luce) sostiene come orizzonte."
È in questa infinita dialettica che l’uomo, ogni singolo uomo viene enucleando l’alveo del proprio abitare, i propri rifugi, o dimore, o prigioni: Stanze, dolcissimi grembi, ambienti di riflessione, di ansia, di solitudine, Vuoti d’ombra, chiuse scatole sulle cui pareti rimbalza la terribile oscurità della noia, o, al contrario, luoghi di protezione dove coltivare e lasciar sedimentare ricordi e memorie: Fossili, remoti criteri di misurazione, concrescenze, serie di segni e di linee che si sovrappongono a strati; Calchi: svariate forme apparentemente statiche, ma interiormente percorse da tracce di ataviche vicende, di lontani eventi, di, forse indecifrabili, configurazioni, amorosamente impaginate come in un antico erbario, conservate come in una indefinita catalogazione museale.
Talvolta anche tali mentali collocazioni, assetti e disposizioni sembrano come essere messi in questione da nascosti, tellurici, inafferrabili sommovimenti - Cose cadute , Impercettibili frane – mentre la stessa consistenza geometrica delle figure sembra essere messa in questione e logorata in Cenere, o in maniera ancor più accentuata in Rovine d’aria.
Ma l’esistenza non è occupata e composta soltanto da istanze prevalentemente costruttive: l’uomo ama infatti anche muoversi più liberamente, negli universi del ricordo, della fantasia o della contemplazione.
Sono queste forse le opere più complesse e sovente di maggiori dimensioni, tutte intessute da una mobile e varia molteplicità di elementi: dalle impercettibili incisioni sulla lastra di vetro sovrapposta alle superfici dipinte o disegnate, alle ammalianti tracce e iconografie dell’amore , del desiderio, dell’eros emergenti su sfondi sempre più agitati e ricchi di pathos, ai multiformi, espressivi contrasti tra la consistenza densa e corposa dal colore a olio e l’oscura, impalpabile secca friabilità ed evanescenza del carboncino, diversamente combinati e distesi sui differenti supporti – tela, carta o cartoncino, carta assorbente o, abbastanza frequentemente, medium density – parte dei quali viene spesso affiorando, arricchendo la composizione con l’originaria coloritura: avorio, bianco immacolato, bianco alabastrino, o bruno quasi terragno, mentre, evocando illusive profondità, le ombre diventano ancor più sognanti e misteriose e sfuggenti iscrizioni si fanno largo e campeggiano sulla superficie a sottolineare la complessità concettuale dell’insieme.
In alcune opere, significativamente intitolate Imaging, su sfondi sempre più agri e aspri, fanno la loro apparizione degli strani spezzoni di diedri in successione discontinua, resi con una tale evidenza da sembrare come proiettarsi al di qua del piano del quadro con un effetto quasi di trompe l’oeil.
In realtà, in questi casi, non si tratta di dipinti che intendano annullarsi come pittura per presentarsi come immediati frammenti di realtà, bensì di una riaffermazione dei domini e delle possibilità della pittura stessa.
Analogamente alle costruzioni di Maurits Cornelis Escher, ma in modo ancor più inafferrabile nella apparente semplicità, si tratta, infatti, di costruzioni impossibili nella realtà effettuale: di immagini proprie non ad un universo mimetico o naturalistico, bensì ad un cosmos metaforico nel quale confluiscono i ricordi dei vecchi canali di irrigazione, occasione e stimolo ai giochi giovanili, come pure molteplici considerazioni sulla natura e i significati del passare e dello scorrere, intimamente legati al concetto del tempo, o del fluire come simbolo connaturato agli insondabili universi del femminile.
Così anche nel caso di Perrini si può affermare, con Baudelaire che l’arte a noi più vicina non è se non "... la creazione di una magia suggestiva che accoglie insieme l’oggetto e il soggetto, il mondo esterno all’artista e l’artista nella sua soggettività."
Una magia faticosamente, duramente, liricamente positiva, quella della celeste pittura di Perrini, in grado anche di farci riscoprire e risollevare lo sguardo e di farci riammirare il cielo: Colmo di vecchie stelle.

Dino Marangon, Marzo 2005