Nuove oggettualità pittoriche nella ricerca di Agostino Perrini
Studio Tommaseo, Trieste, 1991

Da quando ha rinunciato alla pura presenza della superficie la pittura di Agostino Perrini ha progettato luoghi oggettivamente fisici, tridimensionali, costruiti in uno stretto gioco di relazione tra ombre reali e ombre virtuali. In questo sensibile spostamento di ottica l’artista ha continuato a privilegiare i colori del cuore, i blu intensi, le profondità del nero, le schiarite di luce dettate dalle vibrazioni del bianco, quasi per evidenziare una continuità di passioni cromatiche che la nuova struttura dell’opera esprime.
La differenza rispetto al fluire dinamico del colore delle tele degli anni ottanta sta in una compostezza della materia che è dipinta in funzione della costruzione del supporto, questo luogo a cui Perrini dedica un ruolo privilegiato.
Anzi, si può dire che la dimensione del supporto è la natura stessa del dipingere, la sua veste sagomata, smussata, trattata agli angoli come un vero e proprio oggetto di perfezione richiede un esercizio pittorico attento a sublimare la forma geometrica del corpo-oggetto.
C’è uno spirito costruttivo e lineare che ora prevale nelle intenzioni del giovane artista bresciano, c’è una tecnica progettuale che vuole dare all’atto del dipingere una continuità e un’armonia all’interno delle complesse forze in campo, che sono tensioni e sensazioni dello spazio in cui pensare il colore, farsi attraversare dalle sue energie visibili e invisibili. I nuovi oggetti di Perrini vivono positivamente un’idea di ambiguità percettiva, calcolata fino al punto di trasformarsi in un luogo sospeso tra opposte visioni: superficie e profondità, sfumature di luce e presenza materia del pigmento pittorico, forma esatta del supporto e principio disgregante del colore, equilibrio e sbilanciamento del peso percettivo dell’opera.
Nel fissaggio di questi elementi dialettici l’artista privilegia il versante della riduzione, della cancellazione dei caratteri espressivi, qualificando i procedimenti formativi della pittura alla luce di una rappresentazione che sfiora un clima di metafisica sospensione.
Basta osservare alcune opere recenti per convincersi che Perrini mette in scena il racconto di slittamenti prospettici, di misure cromatiche proposte nella costante allusione tridimensionale, anche quando si tratta di puri valori di superficie. Spesso il pensiero della pittura abita direttamente la scatola spaziale suggerita nella dimensione oggettuale dei bordi, dei margini effettivi del supporto, dipinto in tutte le sue dimensioni. Che il colore invada ogni minima porzione di spazio e costringa lo sguardo ad immergersi totalmente in esso è desiderio che l’artista persegue visibilmente, come riflessione intorno al rapporto tra opera e ambiente. In effetti l’idea di una spazialità totale è virtualmente intesa nel progetto dell’opera come condizione di apertura sulla dimensione ambientale. In alcuni casi questa tensione si converte in un’idea di luogo metafisico disabitato, reso ancora più astratto, immobilizzato in un respiro chiuso e autosufficiente.
Sono, queste, le prove in cui Perrini cede al piacere dell’occhio che osserva l’oggetto-pittura da vicino, come un modellino da contemplare nella sua veste miniaturizzata. Lo scarto più efficace l’artista lo trova a diretto contatto con la parete, con il valore luminoso del bianco con la vastità del suo abbraccio, capace di potenziare quel supporto immobile in una complessa animazione di forme, di traiettorie che escono e rientrano nei limiti della superficie. Sono, questi, i passaggi di maggiore convinzione, dovuti soprattutto alla individuazione di uno schema di funzionalità visivo-ambientale che dispone le opere in orizzontale, esplorando l’ambiguità dei margini, sfumando il colore da un massimo di intensità verso valori di pura trasparenza.
Oltretutto, ogni tavola sembra potersi raccordare con le altre, può essere osservata isolatamente ma rivela affinità cromatiche e spaziali tali da poterle leggere in un insieme unitario. Questo indica la presenza di un metodo sempre aperto che non realizza artefatti in se compiuti ma una oggettivazione sempre diversa di un medesimo progetto di spazio pittorico.
La sensibilità di un artista come Perrini rende compatibile sia l’analiticità della costruzione sia l’espressività del colore che si muove per minime vibrazioni, emanazione di uno spazio al di là delle sue misure reali. Questo sconfinamento è essenziale se ci si vuole portare dal visibile all’invisibile, e dall’impercettibile al percettibile.
Un altro carattere di questa complessa macchina visiva (messa in moto con mezzi così assoluti e astratti) è la sensazione incorporea del colore applicata all’oggettualità dura e precisa del supporto preliminare, vale a dire la possibilità di rovesciare la dichiarazione iniziale della pittura: quella di volersi dare uno spazio geometrico, accertato, compiuto.
Qui Perrini rivela la sua attitudine pittorica, sensibile alla pelle della superficie, incapace di raggiungere un clima impersonale e asettico: scatta invece il gusto soggettivo di un colore che proviene dal di dentro, mutevole anche se riconducibile ad uno stile, empirico anche se legato al progetto di massima dello spazio totale, totalizzante. Non c’è alcuna mira verso l’idea di azzeramento e di inespressività, non è annientata la soglia percettiva dell’artista che, anzi, guida in prima persona la natura plurisignificante dell’immagine, le opposizioni del percorso cromatico, i campi orizzontali e verticali che sostengono l’esperienza della forma: dal progetto all’opera, dalla geometria alla fantasia.

Claudio Cerritelli, 1991